
Non appena Sergio Mattarella conferì l’incarico di formare il governo a Mario Draghi, il migliore sulla piazza, Giorgia Meloni si mise subito di traverso. Pronunciò un rotondo no prima ancora che il presidente del Consiglio incaricato si mettesse al lavoro. Un no a prescindere, per dirla con Totò. Un suicidio, secondo diversi osservatori. Prima di tutto perché così si teneva distinta e distante dagli altri partiti di centrodestra, con i quali sarà destinata a governare assieme in caso di probabile vittoria alle elezioni politiche. E poi perché il suo no pregiudiziale indeboliva il potere di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi al governo e spostava il suo asse verso sinistra.
Come spesso le capita, la scelta di Giorgia fu guidata dall’istinto, quell’istinto femminile del quale non ha mai avuto motivo di pentirsi. Ma poi il leader di Fratelli d’Italia ha dato veste razionale, se così si può dire, al suo istinto. E ha dovuto convenire che ci sono buone ragioni di stare all’opposizione senza per questo rinchiudersi in un ghetto. Non occorre chiamarsi Giovanni Sartori per sapere che tutti i Paesi hanno un governo ma solo gli ordinamenti liberaldemocratici hanno anche una opposizione. Considerata di tale importanza che in Inghilterra il suo leader è lautamente stipendiato dallo Stato per l’essenziale funzione che svolge in Parlamento e nel Paese. D’altra parte non un Pinco Pallino qualsiasi ma Benjamin Disraeli, per quarantacinque anni prima membro della Camera dei comuni e poi della Camera dei lord, nonché per due volte capo del governo ai tempi della Regina Vittoria, sosteneva che “nessun governo può conservarsi ben saldo a lungo senza un’opposizione formidabile”.
Ora, tutto si potrà dire di Giorgia Meloni tranne che abbia una flemma di stampo britannico. Ė un vulcano in gonnella. Ha il sangue caldo. Ed è impulsiva, ma assai meno di quanto sembri, al punto di usare in Parlamento se del caso toni più convenienti a un comizio in piazza. Eppure, giorno dopo giorno, la sua ricorda in qualche misura l’Opposizione di Sua Maestà britannica. A Giuseppe Conte, che con le opposizioni di centrodestra ricorreva spesso e volentieri al divide et impera, a costo di dispiacere all’inquilino del Quirinale, non risparmiava nulla di nulla. Senza mai buttare il pallone in tribuna ma argomentando il suo dire con dati di fatto frutto di lungo studio, da quella perfezionista che è.
Con Draghi, invece, è tutt’altra cosa. Forse proprio perché così diversi, hanno finito per intendersi. Se proprio non si piacciono, quanto meno non si dispiacciono. Del resto, tanto per rimanere al di là della Manica, nella terra di Albione il premier ha più dimestichezza con il leader dell’Opposizione che con la propria moglie o marito, a seconda dei casi. Durante il suo incarico, Draghi ha consultato la Meloni non una volta, come da prassi, ma addirittura due volte, nonostante quest’ultima si fosse posta fin da subito all’opposizione. E addirittura le ha concesso il doppio del tempo preventivato. Altro che tecnico, Draghi è un consumato politico come Giulio Andreotti, che non disdegnava di fare l’occhio di triglia all’opposizione al fine di intrattenere buoni rapporti se non addirittura allo scopo di redimerla.
E Giorgia, che pure non è tipo da abboccare all’amo, ricambia a sua volta. Nell’intervista pubblicata su Libero del 21 marzo la Meloni non fa mistero di ascoltare il presidente del Consiglio e di essere ascoltata. Infatti afferma: “In più d’un’occasione ho fatto presente al premier…”. Ancora: “Anche di questo avevo parlato con Draghi…”. E così via. Insomma, un’opposizione leale, responsabile, perché la Meloni si considera forza di governo temporaneamente all’opposizione. Ma anche una opposizione che non fa sconti, a dispetto della stima nei confronti dell’inquilino di Palazzo Chigi. I suoi non sono mai dei no grossi come un grattacielo. Piuttosto sono sì ma, come quelli di Ugo La Malfa ai tempi suoi.
I sì riguardano provvedimenti suggeriti da lei stessa e i ma non si fanno attendere. Una critica sempre ragionata e basata su una documentazione degna di una secchiona. Con questo modo di agire a Giorgia si aprono pascoli infiniti sul territorio, visto e considerato che i Gino Bartali per i quali è tutto sbagliato e tutto da rifare da noi sono sempre spuntati come funghi in autunno. E a livello istituzionale la visibilità è assicurata. Grandi spazi in Parlamento, in televisione, nei mezzi di comunicazione di massa in generale. Soprattutto in omaggio alla par condicio. E visibilità tutt’altro che trascurabile perché alla sua opposizione solitaria spettano le presidenze parlamentari di garanzia: Giunta delle elezioni, delle autorizzazioni a procedere, del Copasir, della commissione di vigilanza Rai.
Su la Repubblica del 23 marzo un osservatore acuto come Stefano Folli sostiene che Giorgia Meloni non può che augurarsi il fallimento di Draghi. Ma il mors tua vita mea non vale oltre Manica. Parola di Disraeli. Dopo tutto, Immanuel Kant docet. L’aria non frena il volo della colomba ma la sorregge. In sua assenza la colomba cadrebbe rovinosamente a terra. Ecco, l’aria è l’opposizione e la colomba il governo. E allora un’opposizione all’inglese, come quella che fa Giorgia, conviene a lei e al tempo stesso a Draghi. Botte piena e moglie ubriaca. Che si vuole di più?
da Fondazione Leonardo